FERRANTE FEVER. LA VITA BUGIARDA

Perché mi è piaciuto questo libro di Ferrante? Avendo del tempo per leggere, quando apro un suo libro mi faccio un caffè e prima di sedermi apparecchio anche zollette di zucchero, puntualmente mi ritrovo accucciata sotto il tavolo di mia nonna ad origliare cose da grandi. Scene di caccia tra sorelle e nipoti che ho ritrovato pari pari nella quadrilogiaL’amica geniale” e nella stessa “Vita bugiarda degli adulti “. Probabilmente leggere libri firmati Ferrante mi piace anche per questo effetto “ritorno al futuro”.

Comincio dall’incipit, la prima cosa che sono riuscita a leggere in anteprima sul Corriere della sera (due mesi prima dell’uscita del libro):

“Due anni prima di andarsene da casa mio padre disse a mia  madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione”.

Alla fine della lettura di questo “inizio” avevo già deciso che era arrivato il momento di prendermi un altro caffé con Elena. Consapevole che avrei dovuto aspettare altri due mesi (il 7 Novembre la data ufficiale dell’uscita del libro).

All’epoca dei segreti “caduti” e da me “raccolti” sotto il tavolo di mia nonna, avevo il terrore di finire come la Zia Nella. Che in quest’ultimo romanzo firmato Ferrante si chiama Vittoria. Che poi non era così brutta e cattiva come la descrivevano. Dovetti ricredermi sul suo conto più di una volta. Ma bella era bella, a modo suo.

Di Ferrante posso dire che se non si molla la lettura ai primi dubbi, se ne rimane invischiati fino all’ultima pagina. Pur nella diversità della sua produzione, nonché resa alla lettura di ognuno, il pericolo Ferrante è nella cronicizzazione, quando pensi di averne preso le distanze se spunta un nuovo titolo la febbre risale.

La poesia è fatta di parole, esattamente come la chiacchiera che stiamo facendo. Se il poeta prende le nostre parole banali e le libera della chiacchiera, ecco che esse, dall’interno della loro banalità, manifestano un’energia inattesa. Dio si manifesta allo stesso modo”.

Dio è questo: uno scossone in una stanza buia di cui non trovo più il pavimento, le pareti, il soffitto. Non c’è da ragionarci, non c’è sa discutere. E’ questione di fede. Se credi funziona se no, no”.

La Fabbrica dei libri. L’amore molesto è diventato un film per la regia di Mario Martone, stessa sorte per il secondo romanzo, I giorni dell’abbandono (2002) per mano di Roberto Faenza. Seguono nel 2003 La frantumaglia , saggio sull’esperienza di scrittrice, e nel 2006 il romanzo La figlia oscura.

Ferrante fever.
Nel 2011 esce L’amica geniale, la prima pietra della tetralogia che consacra Ferrante in Italia e all’estero. Il quarto libro del ciclo de L’amica geniale è stato selezionato per il Man Booker International Prize 2016: The Story of the Lost Child (Storia della bambina perduta) è uno dei 13 finalisti della longlist. Bestseller negli Usa (tradotta da Ann Goldstein), piace a Philip Roth e a James Franco. I quattro romanzi di Elena e Lila, l’una scrittrice l’altra ex moglie di un camorrista poi donna d’affari, sono editi da E/OL’amica geniale (2011), e poi Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014). Dall’Amica geniale è stata tratta la serie tv italostatunitense da Saverio Costanzo, prodotta da Wildside e Fandango con Umedia per Rai Fiction, Hbo e Timvision.

 

 

#inlettura

Titolo: LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI
Autrice: ELENA FERRANTE
Editore: E/O 2019
Pagine: 336

LA RAGAZZA CON LA LEICA

“Gerda è Gerda […]. Un talento naturale che non somigliava alle borghesi né alle proletarie, e tantomeno alle scimmie edeniche di sua madre che forse non esistevano nemmeno. Era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva , si rinnovava, accadeva ovunque, prima a Lipsia e poi a Berlino: nella Pension non lontana dal suo studentato, nella camera affittata dietro Alexanderplatz presso la vedova di guerra Hedwig Fischer e, infine, sulla branda di Max e Pauline, della Pauli, in pieno Wedding”.

 “Grazie a chi ha cercato di mettere un freno alla mia smania di documentazione, ricordandomi che stavo scrivendo un romanzo”. Parto da qui, dall’ultima pagina di questo viaggio potente e avventuroso che è stata per me la lettura di questo romanzo firmato da Helena Janeczec: “La ragazza con la Leica”. E nei ringraziamenti dell’autrice che ho ritrovato la sintesi di quest’opera, corale, trasversale, spiazzante per la ricchezza documentale: foto, testimoni, testimonianze di chi c’era, di chi ha abbracciato Gerda, in tutti i suoi ruoli (amante, compagna, amica) di chi ha sofferto per lei e con lei. Gerda era Gerda. L’energia, il coraggio, il desiderio di libertà e indipendenza.

Pagine che ho letto a perdifiato, altre che ho dovuto rileggere per rintracciarne il senso, ogni qualvolta la descrizione di un fatto privato mi ha costretto ad attingere nella memoria storica che attraversa e lega tutto il libro. Per poi rendermi conto che Gerda in questo romanzo è la nostalgia che tiene in vita tutta la storia, che tiene in vita i personaggi: le coppie, le fotografie, le coincidenze. Una presenza viva, malgrado la sua morte. Ci sono le fotografie che aprono e chiudono la narrazione,  ritratti, scatti rubati, soprattutto ci sono gli altri che ne parlano, che ne conservano memoria, chi più chi meno, con consapevolezza. 

Gerda è morta in Spagna il 26 Luglio del 1937 per le gravi ferite riportate dopo essere stata schiacciata da un carro armato a Brunette e la storia narrata da Janeczec si avvia con una telefonata che Willy riceve da Georg nel 1960 – Roma chiama Buffalo, N.Y. – a cui torna in mente la Spagna di Robert Capa con cui aveva “un’amica in comune, Gerda Taro, che nessuno oggi sa più chi era”. Sullo sfondo dell’intreccio, anche quando non viene nominato, c’è sempre Robert Capa (nelle ultime pagine a tenerlo in vita si affaccia anche suo fratello Cornell).

Nel romanzo sono tre i personaggi che in anni e situazioni diverse raccontano Gerda: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi (1938) dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l’irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Nel prologo e l’epilogo del libro dialogano con alcune foto fatte da Gerda e Robert.

Ma ci sono anche Csiki Weisz, l’aiutante dell’Atélier parigino di Capa al 37 di rue Froidevaux – eroico ciclista, a miei occhi l’uomo del destino, colui che salverà la storia  – e sua moglie Leonora Carrington, custodi di segreti e negativi appartenuti a Capa, Taro e Chim (David Seymour). Con loro si apre il mistero della valigia messicana e il suo prezioso contenuto. 

“Così, mentre i nazisti avanzano, anche Csiki sceglie il materiale che deve essere a tutti i costi sottratto alle loro grinfie. Costruisce tre scatole piatte rettangolari, le riveste di colori differenti (rosso, verde, ocra), le riempie di divisioni di cartone. Somigliano alle confezioni di un maître chocolatier, […] Ma la posto delle praline artigianali, ripone nel reticolato le prove più schiaccianti di ciò che è accaduto in Spagna – una selezione dei negativi di Capa, Chim e Taro […]. Terminato il lavoro, inforca la bicicletta. Sulle ruote appesantite dai minimi averi personali, si fa largo sulle routes nationales intasate dai parigini in fuga, pedalando fino a Bordeaux o a Marsiglia […] sta di fatto che pedala pure per la sua vita, la vita di un ebreo di Budapest gravato di un bagaglio che lo tradirebbe come complice di chi si è opposto con la fotografia alla prima guerra nazifascista sul continente”.

Tutto è sulle spalle di Csiki, che nel frattempo ha riposto il materiale in uno zaino per portarlo in bici fino a Bordeaux. L’obiettivo è imbarcare i negativi su una nave diretta in Messico. Il ragazzo sa di rischiare grosso per via delle sue origini ebree, per questo affida lo zaino a un cileno incontrato lungo la strada. Gli chiede di portare i rullini fino al suo consolato, per metterli al sicuro.

Un romanzo sì, ma così documentato, verosimile, monstre, che rende merito a Gerda Taro: il cui vero nome è Gerta Pohorylle, morta per le ferite riportate dopo essere stata investita da un carro armato a seguito di un bombardamento tedesco, pochi giorni prima del suo ventisettesimo compleanno, con la macchina fotografica al collo. Tedesca discendente da una famiglia di ebrei polacchi, origini che condivide con l’autrice del romanzo, sottolineate con un cambio di registro narrativo alla fine del libro. Nella sua breve ma intensa vita si legò nella sua permanenza a Parigi, professionalmente e sentimentalmente ad Endre Friedman (Robert Capa) che le trasmise tutta la sua conoscenza sulla fotografia, sulla professione, fu lui a metterle in mano la Leica. E fu Gerda a dare una svolta all’attività di Friedman, fino ad allora non ancora decollata, grazie all’invenzione del personaggio di Robert Capa – nome scelto perché ricordava quello del ben più noto regista Frank Capra –  tuttora ricordato fra i più celebri fotoreporter della storia (sua la nota e controversa foto del miliziano colpito a morte). 

N.B.  Gerda morirà in Spagna; Robert su una bomba in Indocina; Chim assassinato a Suez. I loro rullini spagnoli, 126, con i rispettivi negativi, 4.500, della Guerra Civile vengono ritrovati dentro una valigia in Messico nel 1995 e, solo dopo lunghe trattative, portati a New York alla fine del 2007 e resi noti più di dieci anni dopo il loro ritrovamento, esposti in mostre e raccontati in un documentario tra il 2010 e il 2012.

No, non fatico a immaginare Robert Capa e Gerda Taro su una panchina del Central Park, lei che gli dice di sistemarsi la camicia, lui che sbuffa mein General, jawohl, prendendo in giro il suo accento indelebile, e lei si irrita che debba ancora fare il buffone, il gradasso. E mentre continuano a beccarsi, passa un ragazzo su uno skateboard in braghe e maglietta così larghe che […] lo fanno sembrare un pipistrello sgargiante […]  sfrecciato a qualche spanna dal naso dei due vecchi, li azzittisce per un attimo. “Quello sarebbe stato da fotografare.” “Ach! Ormai chissà dov’è…”

Titolo: LA RAGAZZA CON LA LEICA
Autrice: HELENA JANECZEK
Editore: GUANDA 2017
Prezzo: 18 EURO
Pagine: 333

 

  •  Helena Janeczek la trovate qui

BUONGIORNO, MEZZANOTTE

“La mia vita, in apparenza tanto semplice e monotona, in realtà è tutta una complicata faccenda di bar dove sono ben accetta e bar dove mi vogliono, strade amiche e strade minacciose, camere dove potrei essere felice e camere in cui no lo sarò mai, specchi dove mi vedo carina e specchi dove sono brutta, abiti che portano fortuna e abiti che portano sfortuna; e così via per tutto il resto”.

Sasha Jansen, inglese di mezza età, dopo una lunga assenza, torna a Parigi, tormentata dai ricordi di un passato infelice (un matrimonio naufragato, la morte del figlio), ogni sua azione, ogni suo pensiero, sono indirizzati alla ricerca disperata di una quotidianità perduta (o mai avuta?). Una camera d’albergo dalla luce perfetta, un bicchiere di Pernod, tanto per cominciare: “Ho scelto un posto per mangiare a mezzogiorno, un altro per la cena, un buco per bere un bicchiere dopo. Insomma mi sono organizzata nelle piccole abitudini”. 

Quel che ossessiona Sasha, sopra ogni cosa, è “la stanza”. Quella che potrà permettersi, che potrà accoglierla, che potrà pagare: come sarà il bagno? E l’affaccio della finestra avrà quella luce? E gli odori e i rumori? Indizi – abilmente disseminati nella narrazione – che svelano tutta la precarietà della ricerca di una stabilità emotiva e materiale. Sullo sfondo, tra le pagine, spuntano uomini a loro modo insignificanti, chi più e chi meno, se non per rIempire “la stanza”, che dovrà essere pagate in qualche modo.

E ce ne sono di stanze in questo libro, c’è quella dagli Steen: “Finestre quasi sempre chiuse, ma la camera non aveva mai odore di chiuso […] entrava un profumo di spezie e di eau de Cologne […] In quella stanza non si riusciva a pensare, né a fare piani. Solo il battito di due orologi […] Era come se fossi di nuovo bambina: ascoltare e pensare a qualcos’altro […] Come i pomeriggi domenicali”. C’è quella a Londra: “Era una stanzetta piena di aria viziata, con le mie calze appese ad asciugare davanti alla stufa a gas. Mai nulla era pulito, mai nulla nemmeno sporco”.

A metà libro è già chiaro, Sasha pagina dopo pagina si muove alla ricerca di una sensazione primordiale: quel “torno sui passi di casa”, il verso che segue quel “Buongiorno, mezzanotte!” nella poesia di Emily Dickinson scelto come titolo di questo libro.

Buongiorno, mezzanotte!
Torno sui passi di casa,
il giorno s'è stancato di me-
come potrei essere io stanca di lui?

La luce del sole era un dolce posto,
mi piaceva rimanerci-
ma il mattino non mi ha voluta-
quindi buonanotte, giorno!

O forse no. Bisogna arrivare in fondo al libro per capirne l’essenza: “Meglio tacere sulla verità di questa faccenda delle stanze, è una verità pericolosa, potrebbe fare esplodere una intera baracca, minare il sistema sociale”.

E’ una storia per “palati forti”. Non è un libro per tutte le occasioni. Serve una certa forza di volontà per continuare a leggere, pagina dopo pagina. L’autrice, Jean Ryhs riesce a confondere i piani della lettura, a stancarla, trascinarla in un bordello di sentimenti contrastanti (allo stesso tempo imperdibili) ed offre – però – anche due possibilità di riscatto da questa sua narrazione turbolenta: strisciare fuori dal libro a pagina 47: “Molto peggio di quel che temevo”. Oppure farsi trascinare fino alla fine in questa Parigi degli anni Trenta dove ogni alberghetto è uguale all’altro, con una toccata e fuga a Londra, che anaffettiva la respinge, che con crudeltà gli chiede: “Perché non ti sei annegata nella Senna?”.

“Quando esco in place de l’Odeon mi sento felice, perché ho i capelli nuovi, il cappello nuovo, perché ho fatto una lauta cena, per il vino, la fine e il caffé, e perché sento l’odore che ha Parigi di notte. Questa sera non andrò in nessun orrendo bar, no, no, voglio musica e gente che balla. Ma dove vado da sola? Bene, un altro bicchiere, e ci penso sopra”.

N.B. Buongiorno, mezzanotte uscì nel 1939, Jean Rhys aveva quarantanove anni, poco dopo si ritirò a vita privata. Nel novembre 1948, sette anni dopo la sua fuga in un minuscolo paese della Cornovaglia, sul New Statesman, appare un annuncio: “Cerco Jean Rhys (sposata in Tilde Smith) autrice di Viaggio nel Buio, Addio Mr Mackenzie, Buongiorno, mezzanotte ecc. Si prega gentilmente chiunque la conosca di mettersi in contatto col dottor H. W. Egli, 3 Chesterfield Gardens, NW 3”. L’annuncio era stato messo da un’attrice, Selma Vaz Dias che aveva letto il libro e lo aveva adattato per un monologo che doveva andare in onda sulla Bbc. In molti la davano per morta. Lei invece legge l’annuncio, si fa viva, ma scompare di nuovo. Resta lontana dalla vita pubblica fino al 1957, quando Diane Athill, editor tra le più autorevoli – nel curriculum autori come Philip Roth e John Updike, Mordecai Richler, V.S. Naipaul e Margaret Atwood – ha ascoltato un’intervista di Selma alla radio, nel quale l’attrice riferisce che Jean sta scrivendo il suo capolavoro. Diana si incuriosisce, cerca l’autrice, la trova e le offre 25 sterline per un contratto: Rhys che in quel momento vive in povertà – ha 67 anni, il suo terzo marito è in carcere – firma, e promette che consegnerà il libro entro nove mesi, che diventeranno nove anni. Ma aveva ragione Selma: quando nel 1966 esce “Il grande mare dei Sargassi” sarà un successo clamoroso. E’ il prequel femminista e anticoloniale di Jane Eyre – il romanzo di Charlotte Brontë  – con cui Rhys vinse il WH Smith Literary Award nel 1967. Ha settant’anni ed ha finalmente scritto il libro che rivela il suo immenso talento. Muore a Exeter (Devonshire)  il 14 maggio del 1979. Era nata a Roseau, capitale di Dominica (Piccole Antille) il 24 agosto 1894.

Titolo: BUONGIORNO, MEZZANOTTE
Autrice: JEAN RHYS
Editore: ADELPHI 2018
Prezzo: 17 EURO
Pagine: 169
Traduttore: MIRO SILVERA
Prima Edizione: 1939
Per una strana coincidenza, nel giro di pochi giorni mi sono ritrovata a viaggiare contemporaneamente tra le pagine di due libri che "raccontano" gli anni Trenta, Parigi soprattutto. Senza poterne farne a meno. Fino alla fine. Due libri, per carità, senza alcuna vicinanza di struttura narrativa, tanto meno di genere:"Buongiorno, mezzanotte" e "La ragazza con la Leica". Due autrici - poi - nate a distanza di settantaquattro anni: Jean Rhys (1890 - 1974) e Helena Janeczek (1964). Due storie che mi hanno imprigionata, rapita da quella leggerezza sotterranea che le attraversa, la capacità di ridere in faccia alla vita, alla disperazione, al qui e ora, davanti agli orrori della guerra, davanti ad un bicchiere di whisky a stomaco vuoto. Senza per questo perdere la luce e la prospettiva su l’umanità delle persone coinvolte, dei personaggi narrati. Giusto o sbagliato che sia. Due libri da leggere.

 

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“Alcuni libri devono essere assaggiati, altri trangugiati, e alcuni, rari, masticati e digeriti”. Cit. Francesco Bacone / Nella foto Mr Spartaco Francis Toast  & Mr Cesare Bacon Toast / Credit: Sabrina Deligia