TUTTI I LIBRI DI MARILYN MONROE

John Florea, Marilyn Monroe reading Leaves of Grass, 1952.

Marilyn Monroe è nata il 1 Giugno del 1926, oggi avrebbe compiuto novanta quattro anni (se non fosse morta il 4 Agosto del 1962). Conservo tra i libri una sua immagine iconica, quella scattata da Eve Arnold, una delle più grandi fotografe del ‘900 e la prima donna ad entrare nell’agenzia Magnum Photos, dove Marilyn, all’anagrafe Norma Jeane Mortenson, è seduta in un parco ed è intenta a leggere l’Ulisse di James Joyce.


E’ il 1955, Eve e Marilyn sono a Long Island per un servizio fotografico: la giornalista le chiese cosa stesse leggendo per farsi un’idea di come la diva passasse il tempo. Marilyn rispose che aveva l’Ulisse di Joyce in macchina e che lo aveva iniziato a leggere già da molto. Quando si fermarono in un parco giochi per iniziare lo shooting, Marilyn tirò fuori il libro e si mise a leggere mentre Eve preparava la macchina fotografica. Così nacque questa foto iconica, come ebbe modo di raccontare la stessa Eve Arnold:

Stavamo lavorando sulla spiaggia di Long Island. Lei stava facendo visita al poeta Norman Rosten… Le chiesi che stava leggendo quando passai a prenderla (volevo farmi un’idea di come occupasse il suo tempo libero). Mi disse che teneva l’Ulisse in macchina e che lo stava leggendo da molto tempo. Disse che le piaceva il suono e che se lo leggeva a se stessa, ad alta voce, per dare un senso a quelle parole, ma faceva fatica ad andare avanti. Non riusciva a leggerlo continuativamente. Quando poi ci fermammo più avanti per fare delle foto, prese il libro e cominciò a leggerlo, mentre io caricavo la pellicola. Così, ovviamente, la fotografai. C’era sempre una certa collaborazione, uno sforzo comune tra fotografo e soggetto, ma quella volta fu un’idea sua.

USA. Sinai, New York. 1955. US actress Marilyn Monroe reading James Joyce’s “Ulysses.”

Quando il 4 agosto 1962 Marilyn Monroe morì lasciò anche circa quattrocento libri. Dall’ autobiografia di Mae West, ma anche Il capitale, Morte a Venezia e un Come leggere Mann, ancora: La caduta di Camus, Fitzgerald, Shaw, la prima edizione di Sulla strada di Kerouac. Anche Danilo Dolci, con un rapporto sulla mafia. Libri spesso annotati, segnati, consumati.

Titoli che spaziano tra i temi più vari: dalla cucina alla religione, passando per la letteratura e la politica. Molti di questi libri vennero catalogati e, in seguito, venduti all’asta da Christie’s a New York: 

The Personal Property of Marilyn Monroe

New York 27 – 28 October 1999 

Sale total including buyer’s premium: USD 13,405,785 

Molti dei libri andati all’asta avevano annotazioni scritte a mano e lungo le pagine c’erano vari segni che indicavano i passi sui quali Marilyn si era soffermata. Per saperne di più vi lascio la lista dei suoi libri pubblicata da Librarything, il sito per biblotecomani – a partire dal catalogo dell’asta di Christie’s – ha stilato una lista di duecentosessantadue di questi titoli tra i quali figurano non poche opere basilari della letteratura come appunto l’Ulisse di James Joyce, Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, opere di Anton Cechov come testi di Sigmund Freud, Marcel Proust, Alexander Pushkin, Gustave Flaubert, Khalil Gibran o Bertrand Russell. E ancora: Edgar Allan Poe, Oscar Wilde, Lewis Carroll, D. H. Lawrence. Ma anche L’impotenza sessuale nell’uomo di Leonard Paul Wershub o Il bambino. Come si cura e come si alleva del dottor Benjamin Spock. Come osservò qualcuno, rispondendo ai maligni, non fate torto a Marilyn non sono i libri che le lasciò Miller dopo il divorzio (su tutti: I Guermantes di Proust è del 1950, datato sei anni prima di conoscere Arthur).

 

QUELLA SETE DI CRISTO NOTHOMB

Confesso di aver sognato, durante la lettura di Sete, la trasformazione del ficus presente nel mio giardino da mezzo secolo nel fico maledetto e poi perdonato dal Cristo di Amélie Nothomb. Assalita dalla voglia di gustare un frutto caldo di sole, succoso e zuccherino, come Dio comanda! Anche per questo ve ne parlo dell’ultimo libro di Nothomb, subito dopo averlo chiuso ho pensato è fatta, pianterò un fico.

“E’ fatta. E’ un verbo performativo. Basta dirlo – nel modo giusto, nel senso assoluto del verbo – e ogni cosa è compiuta”. E se lo dice lui, il figlio di Dio è tutta un’altra storia. Soprattutto quando Gesù è Amélie.
Nothomb è il Cristo che si racconta e si confida in centodue pagine al netto dei fogli di servizio. Si sente la mano della scrittrice, il suo timbro, nella cura dei dettagli che accompagna da sempre la sua scrittura. Un manifesto in tal senso si può trovare tra le prime righe di questo suo ultimo romanzo, lo stesso Gesù conferma, passatemi la forzatura senza storcere il naso prima di leggerlo: “Ho sempre saputo che sarei stato condannato a morte. Il vantaggio di questa
certezza è che posso accordare la mia attenzione a ciò che lo merita: i dettagli”. La forza della narrazione Nothomb, i dettagli, appunto.

A poche righe dal incipit incontro gli sposi di Cana, mi siedo davanti a Ponzio Pilato, accanto a Gesù che amareggiato mi confida “i miei primi miracolati”. Oggi però sono qui in veste di testimoni d’accusa: “Quest’uomo ha il potere di
trasformare l’acqua in vino – dichiara lo sposo, indicando Gesù -. Eppure ha aspettato la fine delle nozze per servirsi del suo dono… Siamo diventati lo zimbello del villaggio”. Qualche capitolo più avanti lo stesso Gesù confessa di
non aver mai amato i matrimoni: “Questo sacramento mi riempie d’angoscia… Io non mi sposerò e non lo rimpiango affatto”.

Non ci sono soltanto gli sposi di Cana. Sono trentasette i miracolati, trasformati da Pilato in testimoni d’accusa, tutti a mettere in mostra senza batter ciglio “i propri panni sporchi”, avverte Gesù. Il più divertente, l’ex posseduto di
Cafarnao: “Dopo l’esorcismo la mia vita è diventata una noia mortale”. Lazzaro non è da meno quando confessa quanto sia “odioso vivere con quell’insopportabile puzza di cadavere che ti si incolla sulla pelle. Alla fine della passerella degli ex miracolati Gesù è sgomento: “La compiacenza con cui ognuno ha preso la parola contro di me – confessa – mi ha lasciato sbalordito”.

Il Cristo Nothomb è spiazzante, adorabile, dissacrante, amabile, terreno. Adora bere, mangiare, dormire. Non ha paura della morte, ma della crocifissione come di ogni altro altro dolore fisico: “Il più lieve dei mal didenti mi procura un dolore atroce”. Ama il suo corpo, ama con passione: “Nel momento inconcepibile in cui ho scelto il mio destino, non sapevo che questo avrebbe implicato innamorarmi di Maria Maddalena… Di tutte le gioie che ho provato con lei, nessuna ha eguagliato la sua contemplazione”.

La notte prima di morire, Gesù rivela un’unica vergogna, aver maledetto un fico in uno scatto di rabbia dettato dalla gola: “Desideravo tanto mordere un fico caldo di sole, succoso e zuccherino, che ho maledetto l’albero, condannandolo a non avere mai più frutti”. Non era stagione di fichi.
Così umano nelle sue fragilità: “Mio padre mi ha inviato sulla terra per portare la fede. Fede in cosa? In lui. Anche se si è degnato di includermi all’interno del concetto con l’idea di trinità, trovo tutto allucinante”. Lucidamente
consapevole. Tanto che nell’accettare di morire in croce sa di mette in discussione il precetto paterno: “ama il tuo prossimo come te stesso”. Insegnamento sublime, indubbiamente, ma: “Di cui sto professando il contrario. Accetto questa messa a morte mostruosa, umiliante, indecente, interminabile. Chi accetta una cosa simile non si ama af atto”.

Sete l’ho aperto il giorno in cui ho letto della lettera che Amélie aveva scritto al padre Patrick, morto il 17 marzo scorso, agli inizi del lockdown. Tre fogli scritti a mano, con una calligrafia leggera e spaziosa, riprodotti da Le Figarò. Dopo aver letto il libro ho ripensato alla lettera, attirata da una strana assonanza profetica, come quando Amélie rivolta al padre spiega:

“Quando scrivo che hai scelto di morire, non parlo di eutanasia, anche se questo argomento non mi sconvolge. Penso che tu soffrissi profondamente del cancro che ti stava divorando, che la morte ti si è presentata e l’hai accettata, come si accetta la liberazione”.

Passaggio, quest’ultimo, che mi è stato facile sovrapporre a Cristo Nothomb quando rivela:

“Questa notte non ci saranno miracoli. Non ho la minima intenzione di sottrarmi a quanto mi attende domani. Non che non lo desideri, ovviamente”.

Dettagli d’autore. D’altra parte Nothomb dichiara fin dal suo esordio: “Io scrivo molto della e sulla mia vita”.

Della voglia d’acqua di Gesù invece, che attraversa il suo corpo e i suoi pensieri, ne saprete di più leggendo il libro:

“Per provare la sete, occorre essere vivi. Io ho vissuto così intensamente da morire assetato”.

Prima di cominciare, non fatevi mancare acqua fresca e fichi zuccherini. Un frutto sacro ed afrodisiaco allo stesso tempo, di buon augurio. E’ la stagione giusta.

 

 

Sete, Amélie Nothomb Voland 2020

 

Amélie Nothomb

Sete

Traduzione di Isabella Mattazzi

Voland 2020

pp. 128

€ 16,00

ISBN: 97888624340270

FERRANTE FEVER. LA VITA BUGIARDA

Perché mi è piaciuto questo libro di Ferrante? Avendo del tempo per leggere, quando apro un suo libro mi faccio un caffè e prima di sedermi apparecchio anche zollette di zucchero, puntualmente mi ritrovo accucciata sotto il tavolo di mia nonna ad origliare cose da grandi. Scene di caccia tra sorelle e nipoti che ho ritrovato pari pari nella quadrilogiaL’amica geniale” e nella stessa “Vita bugiarda degli adulti “. Probabilmente leggere libri firmati Ferrante mi piace anche per questo effetto “ritorno al futuro”.

Comincio dall’incipit, la prima cosa che sono riuscita a leggere in anteprima sul Corriere della sera (due mesi prima dell’uscita del libro):

“Due anni prima di andarsene da casa mio padre disse a mia  madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione”.

Alla fine della lettura di questo “inizio” avevo già deciso che era arrivato il momento di prendermi un altro caffé con Elena. Consapevole che avrei dovuto aspettare altri due mesi (il 7 Novembre la data ufficiale dell’uscita del libro).

All’epoca dei segreti “caduti” e da me “raccolti” sotto il tavolo di mia nonna, avevo il terrore di finire come la Zia Nella. Che in quest’ultimo romanzo firmato Ferrante si chiama Vittoria. Che poi non era così brutta e cattiva come la descrivevano. Dovetti ricredermi sul suo conto più di una volta. Ma bella era bella, a modo suo.

Di Ferrante posso dire che se non si molla la lettura ai primi dubbi, se ne rimane invischiati fino all’ultima pagina. Pur nella diversità della sua produzione, nonché resa alla lettura di ognuno, il pericolo Ferrante è nella cronicizzazione, quando pensi di averne preso le distanze se spunta un nuovo titolo la febbre risale.

La poesia è fatta di parole, esattamente come la chiacchiera che stiamo facendo. Se il poeta prende le nostre parole banali e le libera della chiacchiera, ecco che esse, dall’interno della loro banalità, manifestano un’energia inattesa. Dio si manifesta allo stesso modo”.

Dio è questo: uno scossone in una stanza buia di cui non trovo più il pavimento, le pareti, il soffitto. Non c’è da ragionarci, non c’è sa discutere. E’ questione di fede. Se credi funziona se no, no”.

La Fabbrica dei libri. L’amore molesto è diventato un film per la regia di Mario Martone, stessa sorte per il secondo romanzo, I giorni dell’abbandono (2002) per mano di Roberto Faenza. Seguono nel 2003 La frantumaglia , saggio sull’esperienza di scrittrice, e nel 2006 il romanzo La figlia oscura.

Ferrante fever.
Nel 2011 esce L’amica geniale, la prima pietra della tetralogia che consacra Ferrante in Italia e all’estero. Il quarto libro del ciclo de L’amica geniale è stato selezionato per il Man Booker International Prize 2016: The Story of the Lost Child (Storia della bambina perduta) è uno dei 13 finalisti della longlist. Bestseller negli Usa (tradotta da Ann Goldstein), piace a Philip Roth e a James Franco. I quattro romanzi di Elena e Lila, l’una scrittrice l’altra ex moglie di un camorrista poi donna d’affari, sono editi da E/OL’amica geniale (2011), e poi Storia del nuovo cognome (2012), Storia di chi fugge e di chi resta (2013) e Storia della bambina perduta (2014). Dall’Amica geniale è stata tratta la serie tv italostatunitense da Saverio Costanzo, prodotta da Wildside e Fandango con Umedia per Rai Fiction, Hbo e Timvision.

 

 

#inlettura

Titolo: LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI
Autrice: ELENA FERRANTE
Editore: E/O 2019
Pagine: 336

L’ESPLOSIONE DEL CAPPERO A NOVEMBRE

E’ dalla prima edizione de La frantumaglia (2003) che ad ogni annuncio di un suo nuovo libro, un cappero, quel cappero fiorisce davanti ai miei occhi. Riesplode coi suoi germogli generosi crepando quell’intonaco di un “celeste insopportabile” sulla parete rivolta ad est. E’ un cappero meravigliosamente cocciuto che sfida ogni stagione, il cappero di Elena Ferrante. Così è stato oggi, leggendo tra le nuove uscite della casa editrice E/O  di un suo libro, il prossimo 7 novembre, dal titolo: La vita bugiarda degli adulti. Qui posso soltanto rilanciare l’anteprima di rito di un libro che ancora non ho letto. Ma posso, voglio, lasciarvi con la storia del cappero scritta da Elena Ferrante in occasione del XV anniversario delle Edizioni E/O (1994), così com’è a pagina 21 de La frantumaglia che nella mia libreria è datata 2003.
Da leggere per capire la magia che si può nascondere nella crepa di un cappero, esplosa su un muro di pietra nuda, viva, normalizzato con maestria da una mano di intonaco.

“In una delle case in cui ho abitato da ragazza, a ogni stagione cresceva un cespo di cappero sulla parete rivolta ad est. Era pietra nuda, mal connessa, non c’era seme che non trovasse una zolla. Ma quel cappero, soprattutto, cresceva e fioriva così superbamente, e d’altra parte con colori così delicati, che me ne era rimasta in mente un’immagine di forza giusta, di energia mite. Il contadino che ci affittava la casa falciava via le piante ogni anno, ma inutilmente. Quando abbellì la parete con l’intonaco, distese una colata uniforme con le mani e poi la dipinse d’un celeste insopportabile. Io aspettai a lungo, fiduciosa, che le radici del cappero avessero ancora la meglio e increspassero all’improvviso la calma piatta della parete. Oggi, mentre cerco la via degli auguri per la mia casa editrice, sento che successe. L’intonaco mise crepe, il cappero riesplose coi primi germogli. Perciò auguro alla e/o di seguire a lottare contro l’intonaco,contro tutto ciò che armonizza cancellando. Lo faccia schiudendo cocciutamente, di stagione in stagione, libri a fiore di cappero”.

 

 

Titolo: LA FRANTUMAGLIA
Autrice: ELENA FERRANTE
Editore: E/O 2016
Prezzo: € 16,15

 

Ripassata “La frantumaglia”, nell’attesa di ammirare i colori e gli odori di questo nuovo “fiore di cappero” firmato Elena Ferrante – che cocciutamente sboccerà alle porte dell’inverno – possiamo crogiolarci nelle note del lancio editoriale della stessa casa editrice tanto cara all’autrice:

“Due anni prima di andarsene di casa mio padre disse a mia madre che ero molto brutta. La frase fu pronunciata sottovoce, nell’appartamento che, appena sposati, i miei genitori avevano acquistato al Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Tutto – gli spazi di Napoli, la luce blu di un febbraio gelido, quelle parole – è rimasto fermo. Io invece sono scivolata via e continuo a scivolare anche adesso, dentro queste righe che vogliono darmi una storia mentre in effetti non sono niente, niente di mio, niente che sia davvero cominciato o sia davvero arrivato a compimento: solo un garbuglio che nessuno, nemmeno chi in questo momento sta scrivendo, sa se contiene il filo giusto di un racconto o è soltanto un dolore arruffato, senza redenzione”.

 

 

Bio. Elena Ferrante è autrice dell’Amore molesto (1992), da cui Mario Martone ha tratto il film omonimo. Dal romanzo successivo, I giorni dell’abbandono (2002), è stata realizzata la pellicola di Roberto Faenza. Nel volume La frantumaglia (I° Edizione 2003) racconta la sua esperienza di scrittrice. Nel 2006 le Edizioni E/O hanno pubblicato il romanzo La figlia oscura, nel 2007 il racconto per bambini La spiaggia di notte illustrato da Mara Cerri e nel 2011 il primo capitolo dell’Amica geniale, seguito nel 2012 dal secondo, Storia del nuovo cognome, nel 2013 dal terzo, Storia di chi fugge e di chi resta, e nel 2014 dal quarto e ultimo, Storia della bambina perduta. Nell’autunno del 2018 è andata in onda, in Italia su Rai 1 e TIMVISION e negli Stati Uniti su HBO, la prima stagione della serie tratta dal romanzo L’amica geniale, con la regia di Saverio Costanzo.

 

Titolo: LA VITA BUGIARDA DEGLI ADULTI
Autrice: ELENA FERRANTE
Editore: E/O 2019
Uscita: 7 NOVEMBRE
Pagine: 336

 

LAVORI IN CORSO, RIORDINO BLOG

Passata l’estate, si è reso necessario un riordino dei post per cambio “tema” (velleità che ha comportato l’invisibilità di formattazioni precedenti). Ero alla ricerca di una “forma” semplice da usare e soprattutto leggere (anche e solo per i miei occhi). Contenuti quindi, in aggiornamento. Pazientate

Sabrina

Mi trovate anche qui.

Oppure potete scrivermi: sabrina.deligia@inlettura.it

CAMBIARE L’ACQUA AI FIORI

Cambiare l'acqua ai fiori Book Cover Cambiare l'acqua ai fiori
Dal mondo
Valérie Perrin
e/o
2019
Brossura
476

Vincitore nel 2018 del Prix Maison de la Presse, presieduto da Michel Bussi, con la seguente motivazione: “Un romanzo sensibile, un libro che vi porta dalle lacrime alle risate con personaggi divertenti e commoventi”.

Violette Toussaint è guardiana di un cimitero di una cittadina della Borgogna. Ricorda un po’ Renée, la protagonista dell’Eleganza del riccio, perché come lei nasconde dietro un’apparenza sciatta una grande personalità e una storia piena di misteri. Durante le visite ai loro cari, tante persone vengono a trovare nella sua casetta questa bella donna, solare, dal cuore grande, che ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre pronta a offrire un caffè caldo o un cordiale.

Un giorno un poliziotto arrivato da Marsiglia si presenta con una strana richiesta: sua madre, recentemente scomparsa, ha espresso la volontà di essere sepolta in quel lontano paesino nella tomba di uno sconosciuto signore del posto. Da quel momento le cose prendono una piega inattesa, emergono legami fino allora taciuti tra vivi e morti e certe anime che parevano nere si rivelano luminose.

“Mi chiamo Violette Toussaint. Facevo la guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo la vita, la bevo a piccoli sorsi, come un té al gelsomino con un po’ di miele. E la sera, quando il cimitero è chiuso e la chiave appesa alla porta del bagno, sono in paradiso.
Non il paradiso dei miei vicini, no.
Il paradiso dei vivi: un sorso del porto annata 1983 […] che stappo verso le sette di sera sia che piova, nevichi o tiri vento”.

Violette Toussaint è una donna gentile, cinquant’anni, guardiana di un cimitero in un villaggio francese. Abita nel villino all’ingresso del cimitero, ha un piccolo orto che cura amorevolmente, con la stessa armonia e dedizione che dedica alle tombe, quelle per cui è richiesto il suo lavoro dai parenti dei defunti sia, soprattutto, quelle abbandonate. I suoi unici amici sono il prete, i titolari dell’agenzia delle pompe funebri e gli addetti alle sepolture. Vive una vita tranquilla, indossa sempre soprabiti scuri, mentre sotto sceglie appositi colori, spesso sgargianti.

Ha vissuto tante vite Violette, bimba abbandonata dalla mamma, poi in orfanotrofio, passata di famiglia affidataria in famiglia affidataria, ha svolto molti lavori, ha conosciuto un grande amore, ha imparato a leggere e scrivere bene per assaporare meglio il romanzo della sua vita, Le regole della casa del sidro, è stata assunta come guardiana di un passaggio a livello. Quando è arrivata la tecnologia, le è stato offerto questo lavoro particolare, guardiana del cimitero di Brancion a Chalon (Borgogna).

Il romanzo è lungo 473 pagine ed è ambientato in gran parte in un cimitero di provincia, in Francia, tra il 2016 e il 2017, anche se ci sono numerosi flashback. Nelle prime pagine a una delle porte bussa un uomo che deve deporre le ceneri della madre sulla tomba di uno sconosciuto, senza sapere perché. Ci sono aspetti molto drammatici nella storia, ma lo spirito del romanzo è vicino a quello delle commedie francesi: qualcuno lo ha paragonato al film Il favoloso mondo di Amélie o a Chocolat (anche se è solo ambientato in Francia) per l’atmosfera che costruisce; ma nella quarta di copertina invece la casa editrice lo accosta all’Eleganza del riccio di Muriel Barbery, un altro romanzo francese e un altro grande successo della casa editoriale.

Un romanzo sorprendente, delicato e intenso. Tra passaggi ironici, momenti di sessualità, lutti e passioni che resistono al tempo, l’autrice si muove tra il mondo dei vivi e quello dei morti con delicatezza e abilità. Non a caso la protagonista si chiama Violette Toussaint (il cognome identifica in francese la giornata dei morti) e fa la guardiana di un cimitero. Atmosfera da Spoon River, tra le tombe che lei cura sono si animano ricordi di vita. Cambiare l’acqua ai fiori non è solo il più comune gesto di pietà in un cimitero, è anche una commovente metafora di come nel corso della vita si può rivivere e rifiorire più volte.

 

LA RAGAZZA CON LA LEICA

“Gerda è Gerda […]. Un talento naturale che non somigliava alle borghesi né alle proletarie, e tantomeno alle scimmie edeniche di sua madre che forse non esistevano nemmeno. Era la gioia di vivere. Qualcosa che esisteva , si rinnovava, accadeva ovunque, prima a Lipsia e poi a Berlino: nella Pension non lontana dal suo studentato, nella camera affittata dietro Alexanderplatz presso la vedova di guerra Hedwig Fischer e, infine, sulla branda di Max e Pauline, della Pauli, in pieno Wedding”.

 “Grazie a chi ha cercato di mettere un freno alla mia smania di documentazione, ricordandomi che stavo scrivendo un romanzo”. Parto da qui, dall’ultima pagina di questo viaggio potente e avventuroso che è stata per me la lettura di questo romanzo firmato da Helena Janeczec: “La ragazza con la Leica”. E nei ringraziamenti dell’autrice che ho ritrovato la sintesi di quest’opera, corale, trasversale, spiazzante per la ricchezza documentale: foto, testimoni, testimonianze di chi c’era, di chi ha abbracciato Gerda, in tutti i suoi ruoli (amante, compagna, amica) di chi ha sofferto per lei e con lei. Gerda era Gerda. L’energia, il coraggio, il desiderio di libertà e indipendenza.

Pagine che ho letto a perdifiato, altre che ho dovuto rileggere per rintracciarne il senso, ogni qualvolta la descrizione di un fatto privato mi ha costretto ad attingere nella memoria storica che attraversa e lega tutto il libro. Per poi rendermi conto che Gerda in questo romanzo è la nostalgia che tiene in vita tutta la storia, che tiene in vita i personaggi: le coppie, le fotografie, le coincidenze. Una presenza viva, malgrado la sua morte. Ci sono le fotografie che aprono e chiudono la narrazione,  ritratti, scatti rubati, soprattutto ci sono gli altri che ne parlano, che ne conservano memoria, chi più chi meno, con consapevolezza. 

Gerda è morta in Spagna il 26 Luglio del 1937 per le gravi ferite riportate dopo essere stata schiacciata da un carro armato a Brunette e la storia narrata da Janeczec si avvia con una telefonata che Willy riceve da Georg nel 1960 – Roma chiama Buffalo, N.Y. – a cui torna in mente la Spagna di Robert Capa con cui aveva “un’amica in comune, Gerda Taro, che nessuno oggi sa più chi era”. Sullo sfondo dell’intreccio, anche quando non viene nominato, c’è sempre Robert Capa (nelle ultime pagine a tenerlo in vita si affaccia anche suo fratello Cornell).

Nel romanzo sono tre i personaggi che in anni e situazioni diverse raccontano Gerda: Ruth Cerf, l’amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi (1938) dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l’irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Nel prologo e l’epilogo del libro dialogano con alcune foto fatte da Gerda e Robert.

Ma ci sono anche Csiki Weisz, l’aiutante dell’Atélier parigino di Capa al 37 di rue Froidevaux – eroico ciclista, a miei occhi l’uomo del destino, colui che salverà la storia  – e sua moglie Leonora Carrington, custodi di segreti e negativi appartenuti a Capa, Taro e Chim (David Seymour). Con loro si apre il mistero della valigia messicana e il suo prezioso contenuto. 

“Così, mentre i nazisti avanzano, anche Csiki sceglie il materiale che deve essere a tutti i costi sottratto alle loro grinfie. Costruisce tre scatole piatte rettangolari, le riveste di colori differenti (rosso, verde, ocra), le riempie di divisioni di cartone. Somigliano alle confezioni di un maître chocolatier, […] Ma la posto delle praline artigianali, ripone nel reticolato le prove più schiaccianti di ciò che è accaduto in Spagna – una selezione dei negativi di Capa, Chim e Taro […]. Terminato il lavoro, inforca la bicicletta. Sulle ruote appesantite dai minimi averi personali, si fa largo sulle routes nationales intasate dai parigini in fuga, pedalando fino a Bordeaux o a Marsiglia […] sta di fatto che pedala pure per la sua vita, la vita di un ebreo di Budapest gravato di un bagaglio che lo tradirebbe come complice di chi si è opposto con la fotografia alla prima guerra nazifascista sul continente”.

Tutto è sulle spalle di Csiki, che nel frattempo ha riposto il materiale in uno zaino per portarlo in bici fino a Bordeaux. L’obiettivo è imbarcare i negativi su una nave diretta in Messico. Il ragazzo sa di rischiare grosso per via delle sue origini ebree, per questo affida lo zaino a un cileno incontrato lungo la strada. Gli chiede di portare i rullini fino al suo consolato, per metterli al sicuro.

Un romanzo sì, ma così documentato, verosimile, monstre, che rende merito a Gerda Taro: il cui vero nome è Gerta Pohorylle, morta per le ferite riportate dopo essere stata investita da un carro armato a seguito di un bombardamento tedesco, pochi giorni prima del suo ventisettesimo compleanno, con la macchina fotografica al collo. Tedesca discendente da una famiglia di ebrei polacchi, origini che condivide con l’autrice del romanzo, sottolineate con un cambio di registro narrativo alla fine del libro. Nella sua breve ma intensa vita si legò nella sua permanenza a Parigi, professionalmente e sentimentalmente ad Endre Friedman (Robert Capa) che le trasmise tutta la sua conoscenza sulla fotografia, sulla professione, fu lui a metterle in mano la Leica. E fu Gerda a dare una svolta all’attività di Friedman, fino ad allora non ancora decollata, grazie all’invenzione del personaggio di Robert Capa – nome scelto perché ricordava quello del ben più noto regista Frank Capra –  tuttora ricordato fra i più celebri fotoreporter della storia (sua la nota e controversa foto del miliziano colpito a morte). 

N.B.  Gerda morirà in Spagna; Robert su una bomba in Indocina; Chim assassinato a Suez. I loro rullini spagnoli, 126, con i rispettivi negativi, 4.500, della Guerra Civile vengono ritrovati dentro una valigia in Messico nel 1995 e, solo dopo lunghe trattative, portati a New York alla fine del 2007 e resi noti più di dieci anni dopo il loro ritrovamento, esposti in mostre e raccontati in un documentario tra il 2010 e il 2012.

No, non fatico a immaginare Robert Capa e Gerda Taro su una panchina del Central Park, lei che gli dice di sistemarsi la camicia, lui che sbuffa mein General, jawohl, prendendo in giro il suo accento indelebile, e lei si irrita che debba ancora fare il buffone, il gradasso. E mentre continuano a beccarsi, passa un ragazzo su uno skateboard in braghe e maglietta così larghe che […] lo fanno sembrare un pipistrello sgargiante […]  sfrecciato a qualche spanna dal naso dei due vecchi, li azzittisce per un attimo. “Quello sarebbe stato da fotografare.” “Ach! Ormai chissà dov’è…”

Titolo: LA RAGAZZA CON LA LEICA
Autrice: HELENA JANECZEK
Editore: GUANDA 2017
Prezzo: 18 EURO
Pagine: 333

 

  •  Helena Janeczek la trovate qui

BUONGIORNO, MEZZANOTTE

“La mia vita, in apparenza tanto semplice e monotona, in realtà è tutta una complicata faccenda di bar dove sono ben accetta e bar dove mi vogliono, strade amiche e strade minacciose, camere dove potrei essere felice e camere in cui no lo sarò mai, specchi dove mi vedo carina e specchi dove sono brutta, abiti che portano fortuna e abiti che portano sfortuna; e così via per tutto il resto”.

Sasha Jansen, inglese di mezza età, dopo una lunga assenza, torna a Parigi, tormentata dai ricordi di un passato infelice (un matrimonio naufragato, la morte del figlio), ogni sua azione, ogni suo pensiero, sono indirizzati alla ricerca disperata di una quotidianità perduta (o mai avuta?). Una camera d’albergo dalla luce perfetta, un bicchiere di Pernod, tanto per cominciare: “Ho scelto un posto per mangiare a mezzogiorno, un altro per la cena, un buco per bere un bicchiere dopo. Insomma mi sono organizzata nelle piccole abitudini”. 

Quel che ossessiona Sasha, sopra ogni cosa, è “la stanza”. Quella che potrà permettersi, che potrà accoglierla, che potrà pagare: come sarà il bagno? E l’affaccio della finestra avrà quella luce? E gli odori e i rumori? Indizi – abilmente disseminati nella narrazione – che svelano tutta la precarietà della ricerca di una stabilità emotiva e materiale. Sullo sfondo, tra le pagine, spuntano uomini a loro modo insignificanti, chi più e chi meno, se non per rIempire “la stanza”, che dovrà essere pagate in qualche modo.

E ce ne sono di stanze in questo libro, c’è quella dagli Steen: “Finestre quasi sempre chiuse, ma la camera non aveva mai odore di chiuso […] entrava un profumo di spezie e di eau de Cologne […] In quella stanza non si riusciva a pensare, né a fare piani. Solo il battito di due orologi […] Era come se fossi di nuovo bambina: ascoltare e pensare a qualcos’altro […] Come i pomeriggi domenicali”. C’è quella a Londra: “Era una stanzetta piena di aria viziata, con le mie calze appese ad asciugare davanti alla stufa a gas. Mai nulla era pulito, mai nulla nemmeno sporco”.

A metà libro è già chiaro, Sasha pagina dopo pagina si muove alla ricerca di una sensazione primordiale: quel “torno sui passi di casa”, il verso che segue quel “Buongiorno, mezzanotte!” nella poesia di Emily Dickinson scelto come titolo di questo libro.

Buongiorno, mezzanotte!
Torno sui passi di casa,
il giorno s'è stancato di me-
come potrei essere io stanca di lui?

La luce del sole era un dolce posto,
mi piaceva rimanerci-
ma il mattino non mi ha voluta-
quindi buonanotte, giorno!

O forse no. Bisogna arrivare in fondo al libro per capirne l’essenza: “Meglio tacere sulla verità di questa faccenda delle stanze, è una verità pericolosa, potrebbe fare esplodere una intera baracca, minare il sistema sociale”.

E’ una storia per “palati forti”. Non è un libro per tutte le occasioni. Serve una certa forza di volontà per continuare a leggere, pagina dopo pagina. L’autrice, Jean Ryhs riesce a confondere i piani della lettura, a stancarla, trascinarla in un bordello di sentimenti contrastanti (allo stesso tempo imperdibili) ed offre – però – anche due possibilità di riscatto da questa sua narrazione turbolenta: strisciare fuori dal libro a pagina 47: “Molto peggio di quel che temevo”. Oppure farsi trascinare fino alla fine in questa Parigi degli anni Trenta dove ogni alberghetto è uguale all’altro, con una toccata e fuga a Londra, che anaffettiva la respinge, che con crudeltà gli chiede: “Perché non ti sei annegata nella Senna?”.

“Quando esco in place de l’Odeon mi sento felice, perché ho i capelli nuovi, il cappello nuovo, perché ho fatto una lauta cena, per il vino, la fine e il caffé, e perché sento l’odore che ha Parigi di notte. Questa sera non andrò in nessun orrendo bar, no, no, voglio musica e gente che balla. Ma dove vado da sola? Bene, un altro bicchiere, e ci penso sopra”.

N.B. Buongiorno, mezzanotte uscì nel 1939, Jean Rhys aveva quarantanove anni, poco dopo si ritirò a vita privata. Nel novembre 1948, sette anni dopo la sua fuga in un minuscolo paese della Cornovaglia, sul New Statesman, appare un annuncio: “Cerco Jean Rhys (sposata in Tilde Smith) autrice di Viaggio nel Buio, Addio Mr Mackenzie, Buongiorno, mezzanotte ecc. Si prega gentilmente chiunque la conosca di mettersi in contatto col dottor H. W. Egli, 3 Chesterfield Gardens, NW 3”. L’annuncio era stato messo da un’attrice, Selma Vaz Dias che aveva letto il libro e lo aveva adattato per un monologo che doveva andare in onda sulla Bbc. In molti la davano per morta. Lei invece legge l’annuncio, si fa viva, ma scompare di nuovo. Resta lontana dalla vita pubblica fino al 1957, quando Diane Athill, editor tra le più autorevoli – nel curriculum autori come Philip Roth e John Updike, Mordecai Richler, V.S. Naipaul e Margaret Atwood – ha ascoltato un’intervista di Selma alla radio, nel quale l’attrice riferisce che Jean sta scrivendo il suo capolavoro. Diana si incuriosisce, cerca l’autrice, la trova e le offre 25 sterline per un contratto: Rhys che in quel momento vive in povertà – ha 67 anni, il suo terzo marito è in carcere – firma, e promette che consegnerà il libro entro nove mesi, che diventeranno nove anni. Ma aveva ragione Selma: quando nel 1966 esce “Il grande mare dei Sargassi” sarà un successo clamoroso. E’ il prequel femminista e anticoloniale di Jane Eyre – il romanzo di Charlotte Brontë  – con cui Rhys vinse il WH Smith Literary Award nel 1967. Ha settant’anni ed ha finalmente scritto il libro che rivela il suo immenso talento. Muore a Exeter (Devonshire)  il 14 maggio del 1979. Era nata a Roseau, capitale di Dominica (Piccole Antille) il 24 agosto 1894.

Titolo: BUONGIORNO, MEZZANOTTE
Autrice: JEAN RHYS
Editore: ADELPHI 2018
Prezzo: 17 EURO
Pagine: 169
Traduttore: MIRO SILVERA
Prima Edizione: 1939
Per una strana coincidenza, nel giro di pochi giorni mi sono ritrovata a viaggiare contemporaneamente tra le pagine di due libri che "raccontano" gli anni Trenta, Parigi soprattutto. Senza poterne farne a meno. Fino alla fine. Due libri, per carità, senza alcuna vicinanza di struttura narrativa, tanto meno di genere:"Buongiorno, mezzanotte" e "La ragazza con la Leica". Due autrici - poi - nate a distanza di settantaquattro anni: Jean Rhys (1890 - 1974) e Helena Janeczek (1964). Due storie che mi hanno imprigionata, rapita da quella leggerezza sotterranea che le attraversa, la capacità di ridere in faccia alla vita, alla disperazione, al qui e ora, davanti agli orrori della guerra, davanti ad un bicchiere di whisky a stomaco vuoto. Senza per questo perdere la luce e la prospettiva su l’umanità delle persone coinvolte, dei personaggi narrati. Giusto o sbagliato che sia. Due libri da leggere.

 

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“Alcuni libri devono essere assaggiati, altri trangugiati, e alcuni, rari, masticati e digeriti”. Cit. Francesco Bacone / Nella foto Mr Spartaco Francis Toast  & Mr Cesare Bacon Toast / Credit: Sabrina Deligia